sabato 26 maggio 2012

Brano dal libro "Deserto Verde" di Alfio Giuffrida - La storia dei Re Magi

Mario pensava che nessuno sapesse di quel prestito, per cui, a quella rivelazione, si preoccupò molto e a poco sarebbero valse le parole con cui lo scrittore Leonardo Sciascia, nel suo libro “Il giorno della Civetta”, aveva criticato coloro che si fanno mettere paura dalle minacce dei prepotenti, classificando le persone in cinque categorie: «gli uomini, i mezz’uomini, gli ominicchi, i (con rispetto parlando) pigliainculo e i quaquaraquà…».

Non gli importava nulla se lui sarebbe stato classificato nell’ultima categoria indicata da Sciascia, se gli amici lo avrebbero poi deriso al suo ritorno in Sicilia.

«Dottò, io ho famiglia», disse Mario con trepidazione, «io me ne frego dei soldi o delle beffe che potranno farmi al paese. Se io non porto da mangiare a casa, mia moglie e i miei figli moriranno di fame.

Ma ditemi, perché ha tirato fuori la storia dei Re Magi? c’è sotto qualche altro tranello? Vi prego, raccontatemi il fatto della strage degli innocenti, voi che tutte queste cose le sapete.» continuò Mario temendo che potessero esserci altri pericoli per la sua vita e al tempo stesso incuriosito per le rivelazioni che gli aveva fatto quell’uomo senz’altro molto più istruito di lui.



«Stai tranquillo», lo rassicurò Alberto, «la storia dei Re Magi non ha nessun tranello sotto. Racconta solo il fatto che la nascita di Gesù fu legata ad un evento astronomico eccezionale.

Penso che la persona che ha usato questo accostamento lo abbia fatto solamente per impaurirti con la strage degli innocenti e dirti che puoi scegliere tra l’incenso, che può essere preso come simbolo di benedizione e la mirra, che al tempo di Cristo veniva usata per imbalsamare i cadaveri e quindi può essere vista come un simbolo di morte.»

«Una volta ho assistito ad una conferenza sulla nascita di Gesù,» continuò Alberto, notando che quell’uomo era ancora terrorizzato per le minacce che aveva ricevuto e attendeva il resto della storia perché le sue parole lo calmavano, «che aveva per argomento principale la “Stella Cometa”.

Quello fu il nome dato a quella strana figura, simile ad una stella allungata, che il pittore Giotto raffigurò per la prima volta nel 1303 in un complesso di affreschi dedicato alla “Adorazione dei Magi”, che si trova a Padova, nella Cappella degli Scrovegni.

Da allora la Stella Cometa fu presa come simbolo dell’annuncio di quell’eccezionale avvenimento, cioè la Nascita di Gesù, segno dato ai Re Magi per suggerire loro la direzione giusta per andare ad adorarlo.

In effetti il Vangelo parlava solo di una “Stella di Betlemme”, e ciò è scientificamente corretto in quanto già da qualche millennio prima della nascita di Cristo, gli astronomi sapevano bene la differenza tra una Stella e una Cometa, che sono due cose totalmente diverse.

Per cui l’associazione “Stella Cometa” fatta dal popolo e riferita al dipinto di Giotto è solo una termine emotivo, ma non un evento realmente possibile.

Con questo ragionamento, il conferenziere mise in dubbio la credenza che i Re Magi fossero stati guidati dalla Stella Cometa, ciò gli serviva per mettere in discussione anche il giorno della nascita di Gesù, che la maggior parte della popolazione pensa che corrisponda al 25 dicembre dell’anno zero del nostro calendario, mentre in effetti non è così.»



Mario lo guardava come un profeta «Mi racconti questa storia, Dottò», disse interessato, «che mi fa piacere sentire come siano andate realmente le cose che a noi poveretti vengono raccontate secondo la tradizione e di questa ci dobbiamo accontentare, mentre Voi Signori che avete studiato, conoscete la verità storica e non le storielle propinate a noi più ignoranti che sanno tanto di presa in giro.

Tanto, riguardo ciò che dovrò fare nei prossimi giorni, penso di avere già preso la mia decisione.».  

«Non si tratta di prendere in giro.» continuò Alberto un po’ risentito, «A volte non si ha la possibilità o l’interesse di studiare a fondo come siano andati realmente i fatti storici avvenuti molti secoli fa, per cui ci affidiamo alle leggende che spiegano bene le cose sicuramente vere, mentre su quelle per le quali si hanno dei dubbi, amplificano a dismisura le gesta dei personaggi che ci interessano.



In effetti i Re Magi erano probabilmente dei Sacerdoti del Profeta Zarathuštra. Essi sapevano che, secondo una profezia dell’Antico Testamento, doveva nascere un Re che avrebbe riunito tutte le popolazioni dei Giudei, a quel tempo sparse in tutto l’Oriente.

Inoltre quella nascita era legata ad un evento astronomico eccezionale, quale la congiunzione delle orbite dei pianeti Giove e Saturno, evento che sarebbe stato visibile nelle sua pienezza solo in una regione limitata della Terra allora conosciuta, attorno al Mar Morto.

I sacerdoti erano degli illustri astronomi ed essendo dei fidi consiglieri del Re, venivano spesso chiamati loro stessi con l’appellativo di Sovrano.

Quando si resero conto, secondo i loro calcoli, che la data della congiunzione delle orbite di Giove e Saturno era ormai vicina, furono inviati dal loro Re in Palestina per verificare se in quella regione si potesse effettivamente vedere quell’evento astronomico eccezionale e se, come era scritto nella profezia, fosse nato un bambino che avesse avuto le caratteristiche richieste per diventare il Re che loro aspettavano.     

Melchiorre, Baldassarre e Gaspare, al loro arrivo a Gerusalemme, per prima cosa fecero visita a Erode, il Re della Giudea romana, per sapere se in quella regione era già nato un bambino, discendente diretto dalla stirpe di Davide, che potesse soddisfare alle caratteristiche descritte nel Vecchio Testamento.



Erode, che non conosceva la profezia, rimase turbato da quella storia che loro raccontarono e chiese ai suoi Scribi quale fosse il luogo ove il Messia doveva nascere. Saputo che si trattava di Betlemme, inviò i Magi in quel luogo, con la scusa di trovare il bambino, raccomandando loro di ritornare da lui e riferire i dettagli del luogo dove lo avevano trovato.

In effetti Erode temeva che la profezia fosse vera, per cui voleva solamente avere quel bambino tra le sue mani per ucciderlo, prima che diventasse adulto e potesse contendergli il posto di Re.

Ma i Re Magi furono avvertiti in un sogno di non ritornare da Erode, per cui egli si infuriò e ordinò quella che è passata alla storia come la “Strage degli innocenti”, che consisteva nell’ordine dato alle sue guardie di uccidere tutti i bambini di età inferiore a due anni, nati in tutta la Palestina.»



Mario ascoltava incredulo ed estasiato quel discorso, per un momento riuscì ad estraniarsi da tutti i suoi gravi problemi concentrandosi su un ragionamento che ribaltava tutte quelle verità che da bambino aveva creduto per fede, ma non si era mai posto il problema di sottoporle ad una verifica.

«E quando sono avvenuti tutti questi fatti?», chiese Mario con interesse, avendo ormai compreso che il ritrovamento delle monete era da interpretare come lo aveva descritto Alberto.



«In effetti la data della nascita di Gesù», continuò Alberto, « fu fissata dal monaco e storico Dionigi il Piccolo, vissuto dal 500 al 545 dopo Cristo, per servire come giorno iniziale dell'era cristiana e da allora non è stata mai modificata anche se sembra ormai dimostrato che sia errata per vari motivi.

Un primo errore, dovuto ad una inesatta informazione sul numero degli anni in cui regnò l’Imperatore romano Augusto, introdusse uno scarto di circa 4 anni, per cui si pensò che la nascita fosse avvenuta nel 4 a.C., cioè prima della morte di Erode I il Grande.

Brano dal libro "Deserto Verde" di Alfio Giuffrida - la cena Berbera

La sera, per andare a cena, tornarono a Nefta. Scelsero un locale di periferia dove, a orario di pranzo, avevano notato una gran folla e quindi pensavano che la cucina dovesse essere buona.

Arrivarono tardi, videro che la grande sala era buia e pensarono che l’ora di cena fosse ormai passata. Stavano per andar via, ma dal brusio si accorsero che il locale era pieno di gente, in effetti mancava solamente la luce per un guasto. Entrarono e cercarono di dare una mano per risolvere il problema.

Fu Alberto che individuò il fusibile bruciato, lo cambiò e la luce tornò a funzionare illuminando una folla elegante e tumultuosa, costituita da un gruppo di Berberi che stavano festeggiando uno di loro che si sarebbe dovuto sposare il giorno dopo. Grati ai quattro italiani per aver risolto il problema della luce e forti del loro grandissimo senso dell’ospitalità, li invitarono ad unirsi a loro nel festeggiamento.



La festa durò tutta la notte, era l'addio al celibato in stile berbero, una cerimonia molto vivace e coreografica, dove lo sposo era l'unico a stare fermo e impassibile, forse perché doveva fare proprio così oppure perché era solo molto emozionato. Gli altri avevano tutti una grande agitazione. Molte donne si avvicinavano allo sposo e sul suo corpo dipingevano piccoli e strani tatuaggi.

I nostri guardavano con stupore, ma le donne dissero che era un rituale che avrebbe portato fortuna e prosperità a tutti coloro che vi avessero partecipato.

Una donna si avvicinò a Giulia con il pennellino in mano, con l’intenzione di farle qualche piccolo tatuaggio ma lei, colta di sorpresa, le spostò il braccio di scatto, facendole rovesciare la pasta colorante, contenuta in un piattino, sul seno coperto da un velo traforato.

La berbera, profondamente offesa, urlò parole che i nostri amici non capirono, ma sicuramente erano delle imprecazioni, poi si rifugiò in un angolo, spostò il velo e quando vide che il seno le era rimasto macchiato, urlò di nuovo, chiamando il suo uomo a vendicarla.



Un uomo nerboruto prese Marco per il colletto della camicia e lo colpì con uno sputo in faccia, lui cercò di parlare, ma nella mano del suo rivale era già comparso un coltello. Evidentemente l’offesa era stata grave. Giulia si mise a gridare e subito gli altri commensali si prodigarono per divedere i due contendenti.

In tre tiravano il berbero dalle spalle, ma lui teneva Marco per un polso e non lo mollava, rendendo vani i tentativi di Carlo di sottrarlo alla presa. Alberto riuscì ad afferrare la mano del berbero per togliergli il pugnale, ma quello, con una mossa fulminea, lo ferì al polso.

La vista del sangue fece intervenire il più anziano del gruppo, che fino ad allora era stato a consolare la donna col seno macchiato.

Urlò a gran voce il nome del nerboruto e questo si fermò, fissando il vecchio con disappunto ma con rispetto. Poi piantò il coltello sul tavolo con tale violenza che la lama trapassò il legno da parte a parte.   

L’anziano berbero chiamò Carlo, perché aveva visto che parlava un po’ la loro lingua e gli spiegò che il tatuaggio per loro era un rituale scaramantico e il rifiuto a farsi tatuare era una grave offesa per la loro comunità e un gesto di iattura per il futuro sposo. Inoltre la donna aveva il vestito irrimediabilmente macchiato ed il seno le sarebbe rimasto sporco per qualche settimana.



Carlo cercò le parole più convincenti per scusarsi e allo stesso tempo far valere le sue ragioni. Spiegò che: «La ragazza italiana è stata presa alla sprovvista ed ha scostato il braccio della donna solo per non farsi tatuare in un posto a caso. Non intendeva affatto colpirla o macchiarla. In Italia i tatuaggi si fanno solo per bellezza e non hanno un significato scaramantico. Sicuramente la ragazza non voleva decidere così su due piedi per un segno che le sarebbe rimasto per tutta la vita».



Ma il vecchio lo interruppe dicendo che il tatuaggio era fatto con hennè e quindi la sua durata era solo di qualche settimana. Poi accennò un sorriso, forse aveva capito l’errore che aveva scatenato quel putiferio, l’italiana aveva scambiato il loro intruglio per qualcosa di permanente.

Carlo, che da buon politico era in grado di capire in un attimo quando una situazione si aggravava e quando invece si ammorbidiva, si mostrò sorpreso per quella notizia ed affermò che in Italia l’hennè aveva un altro colore.

A quelle parole il vecchio capì il malinteso, chiamò subito l’energumeno e la sua donna, spiegò l’errore di entrambi, quindi fece un cenno di scusa verso il gruppo di italiani. Carlo fece altrettanto, subito dopo fece notare al vecchio che Alberto era ferito e serviva un disinfettante per il suo braccio. Il vecchio fece cenno al giovane di seguirlo in un’altra stanza e Giulia, che per tutto il tempo era rimasta con gli occhi fissi su quella ferita, volle seguirlo.



Il berbero chiese al proprietario del locale un disinfettante, Giulia nel frattempo lavò la ferita con un fazzoletto bagnato d’acqua. Dopo un po’, quando il proprietario portò una boccettina di alcool e dei cerotti, medicò la ferita.

In tutto quel tempo lei guardò solo il braccio sporco di sangue, non alzò mai lo sguardo verso gli occhi di Alberto, si rendeva conto che, per curare un estraneo, aveva trascurato Marco, anche lui bisognoso di essere lavato da quello sputo in faccia. Ma la sua scelta era stata spontanea, non vi aveva ragionato sopra e adesso si sentiva un po’ in imbarazzo ad esser sola con quell’uomo che conosceva appena, mentre il suo fidanzato era nell’altra stanza.



Quando tornarono nel salone, videro che il trambusto era ormai dimenticato e la festa era ricominciata. Carlo, forse per dare un segno di amicizia e di augurio verso lo sposo, si era già fatto tatuare un piccolo drago sul polso.

Marco stava con il braccio steso sul tavolo e dava segni di spavalderia, forse per dissimulare la paura che ancora non gli era passata, mentre la donna con il seno macchiato gli stava tatuando un lungo pitone che gli avrebbe coperto tutto l’avambraccio.

Alberto ringraziò Giulia per la medicazione e per essergli stata vicina. Tuttavia, per placare ancora di più gli animi, ritennero che fosse conveniente farsi fare un tatuaggio anche loro.



Si misero a guardare il foglio con tutti i possibili tatuaggi, che la donna aveva lasciato sul tavolo, proprio a fianco al coltello ancora saldamente conficcato nel legno.

Il meteorologo scelse una piccola tartarughina e la mostrò alla ragazza che era rimasta al suo fianco. Giulia si sentiva turbata, alzò lo sguardo fino ad incontrare quello di Alberto e subito lo riabbassò.

Era ancora impaurita per la rissa che aveva involontariamente scatenato e dispiaciuta per la ferita che lui si era procurato per difendere lei e Marco. Accennò poi un timido sorriso e disse, con un filo di voce, che anche lei si sarebbe fatta tatuare la stessa tartarughina. 

Era notte fonda quando andarono a letto, Marco era taciturno, avrebbe voluto gridare a Giulia la sua gelosia, ma non disse nulla, aveva la testa troppo confusa per ragionare. Gli avvenimenti della sera lo avevano stravolto, la sua mente era offuscata e il suo corpo esausto.

sabato 19 maggio 2012

Alfio GIUFFRIDA: L'anno del Niño - Brani scelti

Il tempo passava e le trattative per il rilascio degli ostaggi languivano. Manuela non mollava, era sempre li, tra la sua stanza d’albergo e l’ambasciata, sempre in attesa di una notizia di speranza. Isabella ed Alberto tornarono più volte a trovarla, Manuela gradiva molto le loro visite, le portavano notizie della sua famiglia e qualche soldo, anche se lei era interessata solo ad una cosa, la metà della sua vita era dentro quel maledetto edificio, da cui non trapelava nulla.

Eravamo ormai ad aprile, Manuela era veramente ridotta male, sia in salute che nello spirito, un esaurimento da far paura. Isabella era costretta a rientrare a Quito per il suo lavoro mentre Alberto aveva ancora qualche giorno libero, così Isabella in uno slancio di sincera amicizia verso l’amica, lo pregò, lo supplicò di restare ancora qualche giorno con lei, perché in quel momento Manuela ne aveva proprio bisogno. Così Alberto fece una telefonata per dire che lui restava qualche giorno in più, e così fece. Alberto dovette usare tutte le sue dolcezze per portarla ai giardini pubblici, farla sedere su una panchina e farla sfogare. Farle tirar fuori tutta la sua rabbia verso quei banditi di cui parlavan tutti, chi per condannarli come assassini, chi per inneggiarli come eroi. Eppure tutti, sommessamente, capivano che il sangue e la violenza erano sicuramente il peggiore dei mali. Ma nessuno osava dirlo a voce alta, l’orgoglio di vincere, di far prevalere la propria idea anche a costo della vita degli altri, prevaleva sempre sul buon senso e sulla ragione.

Ma anche ai giardini Manuela non riusciva a rilassarsi, era agitata, tesa. Alberto dovette riportarla in quella casa che lei aveva preso in affitto per stare vicina a Michel, le preparò una camomilla, nella speranza che si calmasse. E a casa Manuela cominciò a piangere, senza più forza in corpo, appoggiando il suo volto sulla spalla di Alberto. Lui l’accarezzava, per farle capire che aveva ragione, per dirle, senza parole, che lui condivideva il suo sfogo, ma anche lui era impotente di fronte alla violenza. Ad un certo momento lo sconforto aveva sopraffatto le loro forze, si guardarono negli occhi e piansero assieme. Il dramma era ormai così forte che anche lui ne era stato tirato dentro, lo sentiva come suo. Le carezze che faceva sul capo di Manuela erano vere, di dolcezza e compassione. Qualche volta Alberto aveva anche sfiorato con le labbra i capelli di Manuela, in modo impercettibile, senza che lui se ne accorgesse. Ma quel gesto non era passato inosservato a chi ne aveva estremo bisogno. Finalmente Manuela si addormentò, erano giorni che non riusciva a prendere sonno. Alberto la prese in braccio e la mise a letto con tutti i vestiti, le rimboccò le coperte e le dette il bacio della buona notte, anche se ancora c’era il sole.



Il giorno  seguente Alberto tornò a trovare Manuela a casa, con un pensiero in mente ed una volontà più che risoluta ad attuarlo. Per dirle che partiva per tornare da Isabella, voleva evitare che fra loro si ripetessero episodi di tenerezza come quella che c’era stata tra loro il giorno prima.

Anche Manuela era rimasta agitata dalle effusioni che aveva ricevuto il giorno prima, si sforzò di ascoltarlo, sapeva bene che era giusto salutarsi e non andare oltre, così si spinse avanti per baciare Alberto, per salutarlo, come aveva fatto molte altre volte.

Alberto si scostò un poco per non baciarla sulla guancia, ritenendo troppo compromettente anche quel gesto, alzò la testa e la baciò sui capelli in modo quasi paternale, facendole al tempo stesso una carezza. Ma in quel momento, quando Manuela sentì le labbra di Alberto sui suoi capelli, alzò la testa e lo baciò. Dapprima le sue labbra sfiorarono la sua pelle senza toccarla, in modo quasi impercettibile, poi le due labbra si affondarono sempre più in quelle dell’uomo, andavano da sole, senza essere guidate dal cervello, con ansia e sentimento. Lo baciò sul collo, sulla fronte sulle guance, infine l’ardore prese il sopravvento, un ardore di fuoco, che non era amore, ma rabbia, riconoscenza, sfogo. Forse era proprio amore per Michel, ma intanto le sue labbra baciavano Alberto, i due corpi erano ormai un’unica cosa.



Anche Alberto sentì qualcosa di caldo dentro di se, come se un fantasma si fosse risvegliato e lo obbligasse a fare qualcosa che egli non avrebbe voluto, così egli cercava di indagare nei suoi sentimenti, se era lecito che lui si comportasse a quel modo.

Ma la risposta non arrivava, la sua mente non riusciva a concentrarsi per ragionare, il suo cervello non era collegato alle sue labbra, andavano da sole ed erano calde e bagnate, come quelle di Manuela, le sue mani accarezzavano il corpo della ragazza e lei stringeva il suo.

Stettero così pochi minuti o forse un’ora, per loro il tempo si era fermato. Nessuno ha mai saputo quanto Alberto e Manuela restarono a far l’amore in quella casa. Era già pomeriggio quando Alberto uscì di nuovo, con la valigia in mano per avviarsi veramente alla stazione.

A Cotacachi Alberto andò subito da Isabella, l’abbracciò con forza e tenerezza, le voleva bene, veramente bene, anche se Isabella notò qualcosa di diverso in quell’abbraccio, in quei baci timidi e insicuri, ma non disse nulla. Chiese ad Alberto come stava Manuela, se si era calmata un po’, se aveva cominciato ad accettare la situazione. E Alberto la rassicurò, Manuela era ancora disperata per Michel, ma adesso aveva ripreso contatto con la vita, aveva ripreso a ragionare. Non aggiunse altro, Isabella notò che Alberto era diventato stranamente taciturno. 

Appena ritornato in ufficio per riprendere il suo lavoro, Alberto si immerse subito nello studio del fenomeno del Niño. Studiava giorno e notte, non pensava ad altro. Forse voleva non pensare ad altro, Isabella capiva e cercava di assecondare questa sua decisione, sperava che il lavoro lo aiutasse a dimenticare qualcosa che era avvenuto in quei giorni a Lima e che lei non aveva mai osato chiedere.

Alberto aveva cominciato a scrivere un articolo sul Niño, ad ogni dubbio andava dal nonno di Manuela, per parlare del Niño, per unire la teoria all’esperienza pratica. 

Ma il pensiero di Manuela non gli dava pace, così un giorno di metà aprile, disse a Isabella che doveva andare ad una riunione di lavoro di un paio di giorni a Guayaquil, ma in effetti prese il treno per andare a Lima.

Si, Alberto era proprio intenzionato a chiarire la sua debolezza con Manuela, a troncare ogni relazione che potesse dar luogo ad equivoci, i suoi propositi erano sinceri. La sua mente era convinta, amava Isabella e l’errore commesso con Manuela era da dimenticare, un gesto di tenerezza finito oltre le loro intenzioni. Il suo cuore batteva forte, ma lui era fermo nella sua decisione.

Appena Manuela lo vide, capì subito il motivo per cui è venuto, e lo precedette nelle parole. Gli disse che il loro era stato un errore passeggero, che non aveva lasciato traccia nel suo cuore. Che i suoi pensieri erano tutti dedicati a Michel ed alla sua salute all’interno dell’ambasciata.

E cominciò a raccontargli di aver fatto amicizia con Roberto un ragazzo che sapeva tutto dei Tupamaros, il quale le aveva spiegato il perché di quella azione terroristica, che il loro intento era di aiutare la popolazione, soprattutto i più deboli, le minoranze indios. Le aveva assicurato che dalle ultime voci che circolavano a Lima in quei giorni, la gente era con i Tupamaros, che ormai era questione di pochi giorni e la situazione si sarebbe sbloccata.

«Naturalmente questa amicizia che ti ho confessato è e deve restare un segreto tra me e te», le disse Manuela guardandolo negli occhi. Ma in quello sguardo c’era più che una semplice complicità, ormai tra Manuela ed Alberto c’era qualcosa di più. Evidentemente, negli ultimi giorni, anche Manuela aveva pensato a lui, in modo più intimo che come per un semplice amico. Il suo ragionamento era tuttavia sincero, la sua mente pensava a Michel come un marito ed Alberto come un amico. E così si incamminarono verso la stazione, con l’intenzione di salutarsi e non rivedersi più, era il 22 aprile del 1997.

Ma proprio li, a pochi passi da quel treno che li avrebbe divisi, un saluto con un bacio era la cosa più naturale di questo mondo, un gesto ormai di sincero affetto e non di amore. Tuttavia quel bacio di saluto fu un incanto, stavano mettendo fine ad un amore durato solo qualche ora, il battito del cuore saliva impetuosamente. Le labbra dell’uno si appoggiarono alle guance dell’altra e viceversa, le menti erano piene di pensieri, di ricordi e di ragionamenti. L’abbraccio era forte e certo non si accorgevano che per strada stava succedendo qualcosa.



Che la gente correva ed urlava qualcosa che riguardava l’ambasciata. Dicevano che i militari peruviani avevano effettuato un blitz ed ucciso i Tupamaros, mentre gli ostaggi erano liberi. Molti era già fuori e correvano verso casa.

Così era Michel, che per raggiungere al più presto Manuela, abbracciarla e farle sapere che stava bene, aveva rubato la prima moto che gli era capitata a tiro e correva verso la casa dove ella abitava, passando davanti alla stazione.

Ma ad un tratto gli occhi di Michel videro una cosa che certo non potevano prevedere, due persone abbracciate che certo non si aspettava e di sicuro non avrebbe mai voluto vedere. Un errore fatale, ma per lui la scena era chiara, ai suoi occhi non lasciava spazio ad equivoci, un bacio che voleva dire tutto. E così la sua mente si staccò dal suo corpo. Le sue mani andarono da sole sul suo volto, come a coprirsi gli occhi per non vedere quella mostruosità e la moto andò dritta contro il muro. Fu uno schianto terribile, che fece girare tutte le persone lì intorno, compresi Manuela ed Alberto, che si staccarono da quel nuovo attimo di evasione e ritornarono nella realtà e, prima ancora di vedere un incidente stradale, ebbero una istantanea visione di cosa era successo. Intuirono tutto prima di vedere. Il sangue si gelò nelle loro vene.


Le scie chimiche


Sul sito  http://www.meteoweb.eu  da quando è apparso l’articolo di Alfio Giuffrida sulle scie chimiche, si è scatenato un accanito dibattito tra sostenitori e demolitori della “teoria del complotto”.

In effetti, da qualche mese l’attenzione dei mass media si sta concentrando su un argomento che, periodicamente, viene posto all’attenzione dei lettori sui quali, ovviamente, determina un grande impatto emotivo: le scie chimiche.

Con questo termine ci si riferisce ad una presunta variante delle ben note “scie di condensazione”, che gli aerei rilasciano nella libera atmosfera, in determinate condizioni fisiche, a causa del loro passaggio.

Una scia di condensazione, o scia di vapore, consiste fondamentalmente in una nube, che si forma nell’aria soprassatura a causa, principalmente, di due motivi:

1. L’immissione dei gas di scarico dell’aereo, che aumentano la percentuale di umidità dell'aria, in genere già soprassatura, porta alla condensazione del vapore acqueo in cristalli di ghiaccio.

 2. La diminuzione della pressione dell'aria, causata dalle ali dell'aereo, che provoca una repentina diminuzione di temperatura e quindi la condensazione del vapore acqueo.

Di norma le scie di condensazione si formano soltanto dagli 8.000 metri in su, con temperature inferiori ai -40 °C ed umidità relative vicine al 100%. Le scie di condensazione si dissipano in breve tempo a causa del rimescolamento con l’aria secca circostante. Oltre al vapore acqueo le emissioni provocate dagli aerei contengono biossido di carbonio, ossidi di azoto, monossido di carbonio, idrocarburi come il metano, solfati e tracce di particolato solido. Ciò, in effetti, costituisce una forma di inquinamento, che è del tutto simile a quella causata dai motori delle auto che usiamo quotidianamente.

Nei primi anni ’70, tuttavia, si sono diffuse in tutto il mondo alcune teorie, formulate da un gruppo di giornalisti completamente privi di nozioni fisiche di base, alle quali venne dato il nome generico di “teoria del complotto”.

Pur non avendo alcun fondamento scientifico, tale teoria ebbe molti seguaci tra i giovani, diventando l’argomento di carattere sociale più discusso tra coloro che si ritenevano (in genere a torto), degli “intellettuali”.

In base a tale teoria, molti dei più importanti fenomeni fisici, che normalmente accadono sulla Terra, erano ritenuti essere provocati appositamente dalle principali potenze mondiali allo scopo di distruggere la popolazione.

Per fare un esempio, il “fenomeno del Niño”, che interessa periodicamente la fascia centrale dell’Oceano Pacifico, secondo le fantasiose affermazioni di tali giornalisti, sarebbe il risultato di un flusso di “onde a bassissima frequenza”, inviate dagli americani, che “a volte” entrano in contatto con “onde stazionarie” emesse dai sovietici. Al riguardo si legga il libro di Alfio Giuffrida: “L’anno del Niño”, edizione Aracne, in cui si discute un po’ più ampiamente questo fenomeno. Oggi, sul sito Wikipedia da cui era stata tratta l’informazione, il brano in cui si afferma che la causa del fenomeno del Niño può essere attribuita ad un complotto è scomparsa. Il sottoscritto conserva tuttavia lo stesso articolo, come era nel 2010, anno in cui è stato scritto il romanzo “L’anno del Niño”.

Negli anni ‘90, i seguaci della teoria del complotto si sono interessati ad alcune scie di condensazione che, secondo loro, potevano essere provocate ad hoc dalle potenze mondiali, mediante presunti rilasci di ipotetiche sostanze chimiche, o biologiche, su aree popolate. Nell'ambito di tale teoria, tali scie vennero definite “scie chimiche” e sono state formulate numerose ipotesi sui "fini" di queste presunte operazioni, assolutamente prive di riscontri fisici, spesso molto fantasiose e generalmente in contraddizione tra loro.

La teoria del complotto non ha mai trovato alcun credito nell'ambito della comunità scientifica, in quanto è totalmente priva di riscontri teorici o di prove scientifiche. Le scie che i sostenitori della teoria identificano come chimiche non hanno nessuna caratteristica che le renda incompatibili con le normali scie di condensazione le quali, in base alle condizioni atmosferiche ed alle direzioni seguite dagli aerei che le hanno provocate, possono assumere forme particolari o inconsuete. Qualche giornalista, informato più degli altri sulle ricerche condotte in ambito meteorologico, ha supposto che le scie chimiche fossero il risultato delle tecniche di “inseminazione delle nubi”, condotte in alcune regioni aride della terra. Tuttavia anche questo accostamento è assolutamente privo di fondamento, in quanto i due fenomeni sono del tutto diversi tra loro.

Naturalmente, il diffondersi di questa teoria, soprattutto tra i giovani, attraverso i mass media e, in particolare, su Internet, ha fatto sì che diversi Enti governativi abbiano ricevuto richieste di spiegazioni da parte di molte persone in merito a questo presunto fenomeno. Gli stessi Enti governativi e la comunità scientifica hanno ripetutamente dimostrato l'assoluta inconsistenza e incoerenza scientifica di tali asserzioni. Anche riviste e programmi di divulgazione scientifica hanno definito tale teoria "una bufala".

Qualche anno fa, l’argomento era diventato di grande attualità poichè alcuni giovani, avendo osservato alcune scie di condensazione a forma di “X”, avevano temuto che potessero nascondere chissà quali pericoli. In tale occasione, il Generale Costante De Simone, allora Direttore del Centro Nazionale di Meteorologia e Climatologia Aeronautica, interpellato dalla rubrica televisiva “Voyager” e dal settimanale “Panorama”, nella sua veste di “scienziato” sull’argomento, al fine dare qualche delucidazione sulla fondatezza delle paure che avevano creato tali scie, ha risposto: “Scie chimiche? No, comiche!”. Ha poi spiegato in modo scientifico che la maggior persistenza è dovuta al fatto che il livello a cui volano i moderni aerei è più alto di quello degli aerei di qualche decennio fa, si avvicina alla “stratosfera”, che è quello strato di atmosfera dove i movimenti dell’aria sono molto più lenti e quindi anche la dispersione delle scie richiede un tempo più lungo. Ma il linguaggio scientifico è difficile da capire ed inoltre … non fa gossip! La gente voleva solo un parere, si o no, se quei giornalisti che avevano lanciato un allarme così grave erano da tenere in considerazione o potevamo dormire sonni tranquilli! E l’esperto ha rincarato la dose nei confronti dei giornalisti che sostengono tale teoria definendoli “mentecatti”.

A parte le parole colorite che l’illustre scienziato ha usato per chiarire, senza ombra di dubbio, il suo parere sull’origine delle scie chimiche, spiegazione del resto condivisa dalla maggior parte delle persone di scienza, qualche giorno dopo era già accaduto qualche altro fatto di cronaca che aveva distolto l’attenzione dalle scie chimiche e di esse non si era più preoccupato nessuno.
In questi giorni, forse per mancanza di argomenti su cui fare gossip, le scie chimiche sono tornate di moda. I giornali ne parlano diffusamente, in quanto l’argomento, come si suol dire “fa cassetta” e fanno bene approfittarne subito, in quanto, come ha simpaticamente raccontato il regista Woody Allen nel suo ultimo film dedicato a Roma: la notorietà arriva in un giorno e in un giorno se ne va. 


giovedì 10 maggio 2012

Santa Lucia, il giorno più corto che ci sia

Questo motto, in effetti, è solamente un detto popolare, in quanto, contrariamente a quanto si afferma in questa frase, non è Santa Lucia, che si celebra il 13 dicembre, il giorno più corto dell’anno, ma, ragionevolmente, il 21 o 22 dicembre, quando si verifica il solstizio invernale.

Ci chiediamo allora che cosa abbia provocato la convinzione che quel giorno fosse il più breve? È presto detto: il proverbio che sentenzia:  “Santa Lucia, il giorno più corto che ci sia” risale a quando, prima del 1582, la differenza fra il movimento astronomico della Terra e il calendario civile era talmente grande che il solstizio si verificava proprio quando il calendario segnava la notte tra il 12 e il 13 dicembre, rendendo quindi l’anniversario della Santa siracusana effettivamente il giorno più corto dell’anno.

In quell’anno, Papa Gregorio XIII, aderendo alle varie richieste degli studiosi di porre fine allo sfasamento che si era creato con l’adozione del “Calendario Giuliano”, decretò che si passasse direttamente dal 4 Ottobre al 15 Ottobre, togliendo quindi i 10 giorni di sfasatura accumulati negli oltre 15 secoli durante i quali è stato in vigore. Il solstizio passò così correttamente al 21-22 dicembre, che è il giorno in cui le ore di sole sono minime e quelle di notte sono massime, durante tutto l’anno, nell’emisfero boreale.

Il calendario giuliano è un calendario solare, cioè basato sul ciclo delle stagioni. Esso fu elaborato dall'astronomo greco Sosigene di Alessandria e promulgato da Giulio Cesare, da cui prende il nome, nell'anno 46 a.C.

Da quella data esso fu il calendario ufficiale di Roma e del suo vasto impero. Successivamente il suo uso si estese a tutti i Paesi d'Europa. Dopo la scoperta dell’America esso fu usato anche in quel continente, man mano che le varie regioni venivano colonizzate. Il calendario giuliano è anche alla base del calendario berbero tradizionale del Nord Africa.

Il calendario gregoriano entrò in vigore il 15 ottobre 1582 (5 ottobre secondo il calendario giuliano) in Italia, Francia, Spagna, Portogallo, Polonia, Lituania e Belgio.  Gli altri paesi si uniformarono negli anni successivi, mentre gli stati luterani, calvinisti e anglicani lo adottarono a partire dal  XVIII secolo, quelli ortodossi ancora più tardi. Le Chiese ortodosse russa, serba e di Gerusalemme continuano tutt'oggi a seguire il calendario giuliano: da ciò nasce l'attuale differenza di 13 giorni tra le festività religiose "fisse" ortodosse e quelle delle altre confessioni cristiane.

La Svezia rappresentò un caso particolare in quanto, nel 1699 passò dal calendario giuliano a quello gregoriano, ma i dieci giorni di differenza che si erano accumulati nel corso dei secoli, non furono tolti tutti in una volta. Il Re di quella Nazione stabilì che i dieci giorni di differenza sarebbero stati recuperati  eliminando gli anni bisestili dal 1700 al 1740. Tuttavia la regola non fu applicata e, nel 1712 si ritornò all’adozione del calendario giuliano, aggiungendo un giorno al mese di febbraio che così risultò composto di trenta giorni. Finalmente nel 1753 anche la Svezia passò al calendario gregoriano eliminando in una sola volta i giorni dal 18 al 28 febbraio.

E adesso una domanda: cosa accadde il 13 novembre dell'anno 7 avanti Cristo? Nacque Gesù? Leggi il romanzo "Deserto Verde", di Alfio Giuffrida, edizione Aracne e avrai la risposta.  

martedì 8 maggio 2012

Terremoti: Il Big One

Terremoti in Messico ed in Malesia, nuovi pericoli di tsunami. Ed intanto in Giappone la terra continua a tremare con scosse di “assestamento” del sesto grado della scala Richter ed oltre.

Tutti pensiamo subito al “Big One” scientificamente previsto da tempo ed abbiamo paura. Oppure cerchiamo di ragionare con la nostra testa e leghiamo questi avvenimenti alla tremendamente annunciata “Fine del Mondo”, che dovrebbe avvenire proprio quest’anno, il 2012, collegandola alla fine del ciclo “b'ak'tun” del calendario Maya.

Le profezie su questo evento aumentano di giorno in giorno, già sembra certa anche la data esatta: il 21 dicembre 2012. Manca solo l’orario! Si parla della possibilità che un asteroide di grandi proporzioni colpisca la Terra, o di un possibile evento meteorologico eccezionale come una alluvione gigantesca, simile a quanto è avvenuto tra 10.000 e 13.000 anni avanti Cristo, noto come “Diluvio Universale” (per maggiori informazioni vedi il libro: Alfio Giuffrida e Girolamo Sansosti: “Manuale di Meteorologia” edizioni Gremese, Roma, 2006).  

Altri parlano di una possibile guerra nucleare ed in tal senso le tensioni internazionali tra Islamismo e mondo occidentale ci fanno preoccupare, oppure di una fine del mondo nel senso spirituale, vista come rinascita ad una nuova vita. Tuttavia nessuna profezia si riferisce a terremoti! Forse perché queste manifestazioni , per quanto potenti esse siano, sono localizzate in una regione della Terra, la quale, anche se vasta, non può mai essere tale da poter dare all’evento il carattere di “universale”.

E allora che cosa è il “Big One” di cui abbiamo tanta paura?

La crosta terrestre, pur se costituita da rocce molto dure, è formata dall’unione di numerose “zolle”, ognuna vasta quanto un continente, separate tra loro e con la possibilità di scorrere lentamente le une verso le altre. Ciò a causa delle enormi quantità di energia generate dalla forza centrifuga, dovuta al movimento di rotazione della Terra stessa ed alle reazioni chimiche che avvengono nel nucleo terrestre, che si trova in uno stato fluido a causa della sua altissima temperature, dell’ordine di qualche migliaio di gradi. Le zone che separano una zolla dall’altra, sono soggette a delle “faglie”, ossia delle linee di frattura in cui le due zolle adiacenti scorrono orizzontalmente o tendono a sovrapporsi una sull’altra.

La più nota tra queste faglie è quella detta di “Sant'Andrea”, che si estende per oltre 1300 km attraverso la California, tra la placca nordamericana e la placca pacifica. Essa è famosa per i devastanti terremoti che si sono verificati nelle sue immediate vicinanze. Ne sono esempi recenti il terremoto di Fort Tejon (poco a nord di Los Angeles) nel 1857, di magnitudo 8, e il terremoto di San Francisco, nel 1906, di magnitudo 8,3.

La faglia fu individuata per la prima volta nel 1895 da Andrew Lawson, professore di Geologia dell'Università di Berkeley, che la chiamò così perché partiva da un piccolo lago, la Laguna de San Andreas, situato su una valle formata proprio dalla faglia a sud di San Francisco. Dopo il terremoto di San Francisco, Lawson scoprì anche che la faglia di Sant'Andrea è tesa in particolare nella California meridionale.

The Big One ("quello grosso", come viene chiamato negli Usa) è il nome dato ad un possibile futuro terremoto che potrebbe essere uno dei più potenti mai verificatisi negli Stati Uniti, superiore al settimo grado della Scala Richter.

Questo terremoto potrebbe scatenarsi come conseguenza dell'elevato accumulo di energia nella faglia e determinerebbe il distacco dalla terraferma di una enorme striscia di territorio che inizia con la penisola di California, continua sul “Salton Sea”, passa a ridosso della vasta area metropolitana di Los Angeles, attraversa la cittadina di Parkfield, che è uno dei luoghi più monitorati per lo studio dei terremoti e si conclude nella baia di San Francisco. Nella evenienza in cui si verificasse questo terremoto, entrambi queste due metropoli sarebbero messe in forte pericolo dal Big One.

Alcuni studi realizzati nel 2005 affermano che le probabilità che il Big One colpisca la California entro 30 anni a partire dalla data dello studio sono molto alte.

La "Piccola età glaciale" ed il minimo di Maunder

Il minimo di Maunder coincise con la parte centrale e più fredda della cosiddetta “piccola era glaciale”, durante la quale l'Europa e il Nord America, e forse anche il resto del mondo (per il quale non ci sono dati certi) subirono inverni estremamente freddi. 

In effetti,  la piccola era glaciale dovrebbe essere chiamata più correttamente:  "Piccola età glaciale", come dicono gli studiosi, per rimarcare il fatto che il lungo lasso di tempo di cui stiamo parlando non arriva ad essere effettivamente un'"era" vera e propria, ossia centinaia di milioni di anni. Essa è un periodo di tempo che va dall'inizio del XIV secolo alla metà del XIX secolo, durante il quale  ci fu un brusco abbassamento della temperatura terrestre in tutto l'emisfero settentrionale.

Dal 1300 si è assistito infatti ad un graduale avanzamento dei ghiacciai o alla nascita di nuovi, che ha segnato una inversione di tendenza rispetto al lungo periodo di temperature relativamente elevate chiamato” periodo caldo medievale”, durante il quale i ghiacciai si erano quasi totalmente ritirati o anche completamente sciolti.

Alla fine della piccola età glaciale, tali ghiacciai sono arrivati ad una massima espansione intorno al 1850 quando le temperature hanno iniziato ad aumentare favorendo il ritiro dei ghiacci. Questa fase è attualmente in corso e se non vi sarà un cambiamento climatico entro qualche secolo, molti ghiacciai spariranno del tutto.

La piccola era glaciale è visibile nelle opere d'arte dell'epoca, per esempio la neve e i laghi ghiacciati dominano molti paesaggi del pittore fiammingo Pieter Brueghel il Vecchio, vissuto tra il 1525 e il 1569.

Con il termine “minimo di Maunder”, ci si riferisce al periodo che va circa dal 1645 al 1715 dopo Cristo caratterizzato da scarsa attività solare, ovvero una situazione in cui il numero di macchie solari divenne estremamente basso, come notato dagli astronomi del tempo. L'inizio di questo periodo fu brusco e avvenne in pochi anni, senza alcun fenomeno precursore. Invece durante la sua fase finale, tra il 1700 ed il 1712, l'attività solare riprese ad aumentare in modo graduale. In particolar modo, viene ricordato l'Inverno 1709 che, secondo gli esperti, è considerato il più freddo degli ultimi 500 anni per il continente Europeo. In quel periodo gli inverni furono molto rigidi e le carestie divennero più frequenti, causando svariate migliaia di morti in Europa e nell’America del Nord.

Un rapporto di causa-effetto tra la bassa attività delle macchie solari e gli inverni più freddi è ancora oggetto di discussione. Secondo alcuni scienziati, l'attività solare potrebbe influenzare i cambiamenti climatici più del diossido di carbonio, attualmente ritenuto la principale causa del riscaldamento globale. Nuovi studi sembrano effettivamente dimostrare una correlazione tra macchie solari e mutazioni del clima.

Il principale di questi può essere considerato quello sulla cosiddetta “Oscillazione Mediterranea”, un andamento oscillante nel campo delle pressioni e delle precipitazioni, con un periodo di circa 11 anni,  lo stesso delle macchie solari. Essa si verifica nell’area del Mediterraneo ed è stata scoperta da Michele Conte e Alfio Giuffrida alla fine degli anni ’80. Da allora è stata ripresa da altri illustri scienziati e pubblicata sulle principali riviste di meteorologia.

Della piccola era glaciale e del minimo di Maunder, si parla un po’ più diffusamente nel libro di Alfio Giuffrida e Girolamo Sansosti: “Manuale di Meteorologia”, edito da Gremese nel 2006.

Il bambino e il cane.

Chicco era un bambino di circa 6 anni. Stava sempre solo, era taciturno, non aveva fratelli né amici, i genitori erano sempre al lavoro, eppure …  aveva un gran bisogno di affetto. Nella società lui si sentiva “diverso”, vedeva che gli altri bambini correvano e giocavano, si divertivano tra loro, ma lui non se ne curava, non aveva voglia di mettersi in mezzo a loro: sentiva solo la necessità di avere qualcuno a fianco a se che lo capisse nelle sue esigenze ma non trovava nessuno. Voleva un amico di cui fidarsi totalmente, uno solo, ma di assoluta sincerità.

Un giorno, mentre tornava da scuola, passando davanti ad un negozio di animali, vide un cartello con la scritta: "si vendono cuccioli". Dietro la vetrina ce n’erano quattro dentro una grossa scatola di cartone che, appena lo videro, appoggiarono le zampette sul bordo e si sporsero a guardarlo, con le loro faccette vogliose di essere presi. Il bambino entrò nel negozio e chiese al proprietario: “quanto costano quei cuccioletti?”.

Il padrone lo guardò distratto, poi rispose, continuando il suo lavoro di sistemare alcune scatole: “Cinquanta euro l’uno”. Il bambino estrasse il suo portamonete e contò i soldi che aveva, erano solo 12 euro. L’uomo lo guardò e sorrise con tenerezza, poi si accovacciò davanti a lui e gli disse: “se vuoi, ho anche un altro cagnolino, che costa meno”. Girò la testa verso il retrobottega e pronunciò un nome. Dal retro arrivarono di corsa altri due cuccioli e, poco dopo, un altro ancora, che zoppicava ed era rimasto indietro rispetto ai suoi fratelli. I suoi occhi tuttavia erano vispi come quelli degli altri cuccioli, esprimevano, forse più degli altri, un grande desiderio di dare e ricevere affetto. Il bambino lo guardò e ne rimase colpito. "Cosa gli è successo?" chiese al commerciante con voce ansiosa. L'uomo gli spiegò che quel cucciolo aveva una zampa difettosa dalla nascita e che sarebbe rimasto zoppo per sempre.

Il bambino si girò ed incrociò di nuovo lo sguardo del cane. Fra loro due scattò subito un’intesa particolare. “Vorrei comprare proprio questo cagnolino”, disse al padrone con voce affannata, desiderosa di ricevere una risposta affermativa su qualcosa a cui teneva molto, “ma ho solo 12 euro. Il resto potrò pagarlo a rate, 2 euro a settimana che potrò mettere da parte dalla mia paghetta.” 

L'uomo lo guardò commosso e gli rispose: "Non ti preoccupare, non dovrai comprarlo! Se lo vuoi veramente te lo regalo!".

Il bambino rimase sorpreso e, guardando l'uomo diritto negli occhi, gli disse: "non voglio che lei me lo regali: vale tanto quanto gli altri cagnolini e io le pagherò il prezzo intero. Se è d'accordo le darò subito i miei 12 euro, il resto lo pagherò a rate, per come le ho detto". 

L'uomo lo guardò con aria pensierosa, da buon padre di famiglia, poi continuò: "Vedo che ti sei affezionato a questo cagnolino, ragazzo, ma è mio dovere avvertirti di una cosa. Lui non sarà mai in grado di correre, di saltare e di giocare come gli altri cagnolini! Forse un giorno ti stancherai di stare sempre indietro agli altri bambini per aspettarlo, lo guarderai di nuovo e vedrai una faccetta stanca e affaticata, ma nonostante le tue incitazioni, lui non potrà fare di più, resterà sempre indietro rispetto agli altri suoi simili. Ma nonostante questo continuerà a vivere ed avere bisogno della persona a cui si è affezionata, mentre tu potresti stancarti di lui."

Il bambino capì che le parole che quel signore aveva detto erano vere per molti, ma non per lui. Si piegò ed arrotolò la gamba sinistra dei suoi pantaloni, scoprendo il pesante apparecchio metallico che univa la sua scarpa finta al moncone del suo ginocchio. Poi si rivolse di nuovo l'uomo e gli disse: "questo non importa, anch'io non posso correre e il cagnolino avrà bisogno di qualcuno che lo capisca!".

L'uomo rimase commosso ed allibito da quel gesto e dalle parole compite di quel bambino, ingoiò un grosso grumo di saliva e si morse le labbra, impietrito dalla enorme gaffe che aveva fatto, mentre i suoi occhi si riempirono di lacrime.

Poi allungò la sua mano tremante, come se chiedesse il permesso di accarezzarlo sulla fronte, sentendosi piccolo di fronte a quel GRANDE. Si asciugò gli occhi e disse: "ragazzo mio, oggi mi hai insegnato tante cose. Mi auguro che tu possa dare a tutti la lezione di vita che oggi hai dato a me e spero davvero che ciascuno di questi cuccioli trovi un padrone come te."