sabato 26 maggio 2012

Brano dal libro "Deserto Verde" di Alfio Giuffrida - la cena Berbera

La sera, per andare a cena, tornarono a Nefta. Scelsero un locale di periferia dove, a orario di pranzo, avevano notato una gran folla e quindi pensavano che la cucina dovesse essere buona.

Arrivarono tardi, videro che la grande sala era buia e pensarono che l’ora di cena fosse ormai passata. Stavano per andar via, ma dal brusio si accorsero che il locale era pieno di gente, in effetti mancava solamente la luce per un guasto. Entrarono e cercarono di dare una mano per risolvere il problema.

Fu Alberto che individuò il fusibile bruciato, lo cambiò e la luce tornò a funzionare illuminando una folla elegante e tumultuosa, costituita da un gruppo di Berberi che stavano festeggiando uno di loro che si sarebbe dovuto sposare il giorno dopo. Grati ai quattro italiani per aver risolto il problema della luce e forti del loro grandissimo senso dell’ospitalità, li invitarono ad unirsi a loro nel festeggiamento.



La festa durò tutta la notte, era l'addio al celibato in stile berbero, una cerimonia molto vivace e coreografica, dove lo sposo era l'unico a stare fermo e impassibile, forse perché doveva fare proprio così oppure perché era solo molto emozionato. Gli altri avevano tutti una grande agitazione. Molte donne si avvicinavano allo sposo e sul suo corpo dipingevano piccoli e strani tatuaggi.

I nostri guardavano con stupore, ma le donne dissero che era un rituale che avrebbe portato fortuna e prosperità a tutti coloro che vi avessero partecipato.

Una donna si avvicinò a Giulia con il pennellino in mano, con l’intenzione di farle qualche piccolo tatuaggio ma lei, colta di sorpresa, le spostò il braccio di scatto, facendole rovesciare la pasta colorante, contenuta in un piattino, sul seno coperto da un velo traforato.

La berbera, profondamente offesa, urlò parole che i nostri amici non capirono, ma sicuramente erano delle imprecazioni, poi si rifugiò in un angolo, spostò il velo e quando vide che il seno le era rimasto macchiato, urlò di nuovo, chiamando il suo uomo a vendicarla.



Un uomo nerboruto prese Marco per il colletto della camicia e lo colpì con uno sputo in faccia, lui cercò di parlare, ma nella mano del suo rivale era già comparso un coltello. Evidentemente l’offesa era stata grave. Giulia si mise a gridare e subito gli altri commensali si prodigarono per divedere i due contendenti.

In tre tiravano il berbero dalle spalle, ma lui teneva Marco per un polso e non lo mollava, rendendo vani i tentativi di Carlo di sottrarlo alla presa. Alberto riuscì ad afferrare la mano del berbero per togliergli il pugnale, ma quello, con una mossa fulminea, lo ferì al polso.

La vista del sangue fece intervenire il più anziano del gruppo, che fino ad allora era stato a consolare la donna col seno macchiato.

Urlò a gran voce il nome del nerboruto e questo si fermò, fissando il vecchio con disappunto ma con rispetto. Poi piantò il coltello sul tavolo con tale violenza che la lama trapassò il legno da parte a parte.   

L’anziano berbero chiamò Carlo, perché aveva visto che parlava un po’ la loro lingua e gli spiegò che il tatuaggio per loro era un rituale scaramantico e il rifiuto a farsi tatuare era una grave offesa per la loro comunità e un gesto di iattura per il futuro sposo. Inoltre la donna aveva il vestito irrimediabilmente macchiato ed il seno le sarebbe rimasto sporco per qualche settimana.



Carlo cercò le parole più convincenti per scusarsi e allo stesso tempo far valere le sue ragioni. Spiegò che: «La ragazza italiana è stata presa alla sprovvista ed ha scostato il braccio della donna solo per non farsi tatuare in un posto a caso. Non intendeva affatto colpirla o macchiarla. In Italia i tatuaggi si fanno solo per bellezza e non hanno un significato scaramantico. Sicuramente la ragazza non voleva decidere così su due piedi per un segno che le sarebbe rimasto per tutta la vita».



Ma il vecchio lo interruppe dicendo che il tatuaggio era fatto con hennè e quindi la sua durata era solo di qualche settimana. Poi accennò un sorriso, forse aveva capito l’errore che aveva scatenato quel putiferio, l’italiana aveva scambiato il loro intruglio per qualcosa di permanente.

Carlo, che da buon politico era in grado di capire in un attimo quando una situazione si aggravava e quando invece si ammorbidiva, si mostrò sorpreso per quella notizia ed affermò che in Italia l’hennè aveva un altro colore.

A quelle parole il vecchio capì il malinteso, chiamò subito l’energumeno e la sua donna, spiegò l’errore di entrambi, quindi fece un cenno di scusa verso il gruppo di italiani. Carlo fece altrettanto, subito dopo fece notare al vecchio che Alberto era ferito e serviva un disinfettante per il suo braccio. Il vecchio fece cenno al giovane di seguirlo in un’altra stanza e Giulia, che per tutto il tempo era rimasta con gli occhi fissi su quella ferita, volle seguirlo.



Il berbero chiese al proprietario del locale un disinfettante, Giulia nel frattempo lavò la ferita con un fazzoletto bagnato d’acqua. Dopo un po’, quando il proprietario portò una boccettina di alcool e dei cerotti, medicò la ferita.

In tutto quel tempo lei guardò solo il braccio sporco di sangue, non alzò mai lo sguardo verso gli occhi di Alberto, si rendeva conto che, per curare un estraneo, aveva trascurato Marco, anche lui bisognoso di essere lavato da quello sputo in faccia. Ma la sua scelta era stata spontanea, non vi aveva ragionato sopra e adesso si sentiva un po’ in imbarazzo ad esser sola con quell’uomo che conosceva appena, mentre il suo fidanzato era nell’altra stanza.



Quando tornarono nel salone, videro che il trambusto era ormai dimenticato e la festa era ricominciata. Carlo, forse per dare un segno di amicizia e di augurio verso lo sposo, si era già fatto tatuare un piccolo drago sul polso.

Marco stava con il braccio steso sul tavolo e dava segni di spavalderia, forse per dissimulare la paura che ancora non gli era passata, mentre la donna con il seno macchiato gli stava tatuando un lungo pitone che gli avrebbe coperto tutto l’avambraccio.

Alberto ringraziò Giulia per la medicazione e per essergli stata vicina. Tuttavia, per placare ancora di più gli animi, ritennero che fosse conveniente farsi fare un tatuaggio anche loro.



Si misero a guardare il foglio con tutti i possibili tatuaggi, che la donna aveva lasciato sul tavolo, proprio a fianco al coltello ancora saldamente conficcato nel legno.

Il meteorologo scelse una piccola tartarughina e la mostrò alla ragazza che era rimasta al suo fianco. Giulia si sentiva turbata, alzò lo sguardo fino ad incontrare quello di Alberto e subito lo riabbassò.

Era ancora impaurita per la rissa che aveva involontariamente scatenato e dispiaciuta per la ferita che lui si era procurato per difendere lei e Marco. Accennò poi un timido sorriso e disse, con un filo di voce, che anche lei si sarebbe fatta tatuare la stessa tartarughina. 

Era notte fonda quando andarono a letto, Marco era taciturno, avrebbe voluto gridare a Giulia la sua gelosia, ma non disse nulla, aveva la testa troppo confusa per ragionare. Gli avvenimenti della sera lo avevano stravolto, la sua mente era offuscata e il suo corpo esausto.

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