sabato 16 novembre 2013

Chicco e il Cane – Ricordi di infanzia a Mascalucia

È un brano del libro: “Chicco e il Cane” di Alfio Giuffrida
Si trova on line  http://t.co/L1oZOWLK

 


In un attimo perse tutta la sua prepotenza ed anche quel senso di sicurezza che aveva verso se stesso. Tutto quel mondo dorato che aveva costruito attorno alla sua figura, stava crollando miseramente ed implacabilmente. Pensò a se stesso non più come a un giudice, onesto, severo, giusto ed imparziale, delle cui azioni e decisioni andava fiero, che sapeva giudicare e consigliare il prossimo, dettando le sue giustissime sentenze anche in famiglia. Tutto ciò era ormai avvolto in una nebbia irreale, mentre una nuova luce si faceva spazio nel suo cervello stanco. In quel momento si vide di nuovo bambino.
Nella sua mente era tornato ad essere semplicemente Luca, quel ragazzino che giocava felice assieme a tanti altri, con le sue marachelle e la sua gioia di vivere, con i suoi piccoli problemi, i suoi grandi interessi e col suo sogno segreto: che un giorno sarebbe riuscito a diventare una persona importante.   
Nel silenzio della notte, egli cercava di capire cosa fosse accaduto alla sua mente. Valutare se il suo cervello era completamente spento o fosse ancora in grado di pensare. Poi, a poco a poco, le sue cellule celebrali ripresero a lavorare, cominciò a rivedere, come in un film, le immagini salienti della sua vita. Rievocò gli anni della sua fanciullezza, la spensieratezza delle sue azioni da bambino, gli episodi accaduti nel paesello dove era nato, laggiù in Sicilia a metà strada tra Catania e l’Etna.
Fu il ricordo di una vita semplice, le passeggiate scolastiche che nel periodo delle scuole elementari si facevano il giovedì, quando la maestra li portava fuori, formando una lunga fila di piccoli alunni che si tenevano tutti con la mano. Prima però controllava, con lo stesso amore che avrebbe avuto una mamma, che i “suoi” bambini avessero tutti la loro colazione a sacco, in genere due fette di pane con in mezzo un po’ di mortadella o di formaggio fatto con latte di pecora fresco, di quello comprato dal pecoraio del paese che lo faceva in casa e, quando lo si addentava, faceva uno strano stridio di fresco sotto i denti. Ma erano in pochi ad averlo, perché costava caro ed solo alcuni di loro potevano permetterselo.
La passeggiata in genere era breve, la maestra li portava sempre nel cortile di una vecchia chiesa sconsacrata che era poco distante dalla scuola, ma i bambini erano molto contenti di poter correre un po’ e giocare a nascondino tra quei pochi alberi di olivo e qualche manufatto abbandonato.

In terza elementare avevano avuto invece il “Maestro Tomaselli” che era anziano e della vecchia guardia, lui non aveva la pazienza di controllare le loro merende e portarli sull’erba. Lui era un gran brav’uomo, un padre di famiglia, ma era anche un nostalgico, non si era per nulla accorto che il mondo era cambiato.
Quei “suoi” bambini lui li considerava ancora dei piccoli “Balilla”, nonostante quel periodo fosse ormai del tutto passato. Il giovedì, nell’ora della passeggiata, li inquadrava nel cortile della scuola e li faceva marciare, dritti ed in riga come dei veri soldati. Aveva insegnato loro a prendere le distanze tra una fila e l’altra con il braccio destro alzato, poggiando la mano prima sulla spalla di chi stava loro davanti e poi di chi stava loro a fianco, in modo da non urtarsi quando marciavano a passo cadenzato, mentre lui scandiva forte “un, due, un, due, … passo!”.
Aveva insegnato loro a fare anche il “passo dell’oca” ed avrebbe voluto che i bambini facessero anche il saluto fascista, ma qualche genitore l’aveva saputo ed era andato a dirgli, a brutto muso, che non era il caso che rievocasse in modo così evidente un passato che tutti avevano voglia di dimenticare in fretta. E lui aveva obbedito, anche se nessuno seppe mai se ciò fu per paura, oppure per la consapevolezza di chi è convinto delle sue idee, ma rispetta anche quelle degli altri.
E poi ci fu la grande nevicata del ’56, quella che è stata rievocata anche in una canzone di Mia Martini che ha avuto molto successo. In quella occasione tutti i bambini di Mascalucia giocavano a fare pupazzi di neve oppure si rotolavano felici nella piccola discesa di Via Calvario dove, in alcuni giorni, la neve era abbastanza alta e le macchine non potevano circolare. In quell’ambiente, tanto strano in un paese del sud, che era diventato improvvisamente di aspetto polare, imbiancato di neve e bloccato nelle attività quotidiane, che faceva arrabbiare gli adulti, impacciati ed impossibilitati a recarsi al lavoro, i bambini facevano le loro nuove esperienze, adattandosi con gioia a quel paesaggio soffice ed impalpabile.
Il piccolo Luca giocava sereno e quando si ritirava a casa si prendeva i rimproveri di mamma perché si era inzuppato di neve e poteva raffreddarsi. Ma erano rimproveri benevoli, che finivano sempre con un bacio.
Quell’anno tutte le regioni d’Italia, fino a quelle più estreme del meridione, furono imbiancate da uno spesso strato di neve, che cadde anche in Africa, sulle dune del deserto del Sahara. Un evento veramente eccezionale che durò per tutto il mese di febbraio e, dopo una pausa di una quindicina di giorni, riprese a marzo, classificando quell’anno come il più freddo della storia recente, anche se i record di temperatura minima appartengono con maggior frequenza al gennaio 1985, quando una massa d’aria gelida, proveniente dai Balcani, invase la nostra penisola per un paio di giorni.
Nel suo letto, zuppo di sudore, il giudice pensò a quei pomeriggi in cui doveva sbrigarsi a fare i compiti che gli aveva assegnato la maestra, per poi correre fuori a giocare con gli altri bambini della sua età. Cercò di ricordare i nomi di alcuni di loro: c’era Turi, che da grande era diventato giornalista e scrittore, Nino che poi fece il pasticciere e Filippo già destinato a fare il farmacista, perché quello era il lavoro di suo padre; e tanti altri. Quanti ricordi, dolci e confusi, passarono per qualche istante nella sua mente stanca!
Nel paese si conoscevano tutti e i bambini andavano sempre a giocare nel piazzale davanti alla Chiesa Madre e poi, non appena cominciava a farsi tardi, si riunivano tutti nella sede della “Democrazia Cristiana”: un grande salone dove nei periodi subito antecedenti le elezioni, i politici locali tenevano dei comizi al chiuso, mentre nei rimanenti periodi dell’anno era gestito dai notabili di quel partito.

In pratica quella sala era sempre a disposizione di quegli anziani, ritenuti politicamente fedelissimi, che stavano lì a giocare a carte e guardare la televisione. C’era uno di quei primi televisori che si videro in Italia a metà degli anni ’50, acquistato presso l’unico rivenditore che nella vicina città era riuscito ad accaparrarseli, il quale diceva con grande orgoglio, che lui li importava direttamente dall’America.
Era uno di quegli apparecchi grandi, pesanti, profondi e con lo schermo piccolo, al quale, come era di abitudine a quel tempo, si usava far costruire dal falegname del paese un mobile ad hoc per contenerlo. Quello situato nella sede della Democrazia Cristiana era di legno scuro, con le ante, che la sera, quando finivano i programmi ed appariva una antenna televisiva che scendeva e scompariva nella parte bassa dello schermo, si potevano chiudere per proteggere quel prezioso strumento tecnologico e custodirlo, oltre che dalla polvere e dagli urti accidentali, anche dagli sguardi dei curiosi del partito opposto, che sicuramente lo desideravano ma non erano ancora riusciti a raggiungere l’accordo, o la somma, per poterlo acquistare e finalmente vedere anche loro le notizie, i film e gli spettacoli che diventavano sempre più interessanti.
A volte entrava in quella sala anche il vecchio Parroco del paese, soprattutto quando c’era qualche intruso dell’altro partito, che lui conosceva bene, con il quale si soffermava a far due chiacchiere per sapere se, effettivamente, si era politicamente convertito oppure era venuto solo per curiosare. Spesso veniva il maresciallo dei Carabinieri, sempre ossequiato e riverito dagli adulti e scrutato con attenzione dai bambini, le cui mamme lo indicavano sempre come simbolo dell’autorità dello Stato e della severità della Legge. A volte passava anche il farmacista, un’altra delle figure eminenti di quei piccoli paesetti di provincia, ma lui non entrava mai dentro, come invece facevano gli altri che in quel modo approfittavano per ammirare quel gioiello della tecnica, lui si fermava sempre davanti alla porta perché il televisore lo aveva già comprato e lo aveva a casa, anche se non lo aveva mai detto a nessuno per evitare di avere troppe visite indiscrete.
In quella grande sala, arredata solamente con sei o sette file di sedie disposte davanti al televisore, gli amici dei notabili venivano a vedere il telegiornale ed il sabato sera, a turno secondo la capienza della sala, potevano portare tutta la famiglia per assistere ai programmi di quell’unico canale televisivo di cui l’Italia di allora disponeva. Si potevano seguire i primi spettacoli di varietà di Ugo Tognazzi e Raimondo Vianello o il gioco a quiz: “Il musichiere” presentato dall’indimenticato Mario Riva. I bambini invece erano ammessi tutti i giorni, ma solo fino all’ora di “Carosello”, poi tutti a casa, a chiedere alla mamma il formaggino di cui avevano visto la pubblicità e sentirsi dire che non c’era, perché costava troppo ed in paese non si trovava, per comprarlo bisognava prendere la corriera ed andare in città.
Così una mezz’ora prima che iniziasse il famoso programma pubblicitario, tutti i ragazzini arrivavano in quella sala come attratti dal miele e chiamavano a gran voce quel loro amico, che un giorno sarebbe diventato  un giudice, per fare come ogni sera, il loro gioco preferito: “Se avessi una bacchetta magica”.
Quel gioco scaturiva dal fatto che lui aveva una discreta conoscenza di geografia, trasmessa dal suo vicino di casa, l’avvocato Condorelli che la geografia l’aveva nel sangue, come una passione. La studiava anche di notte perché doveva presentarsi, su quella materia, a “Lascia o raddoppia”, una delle prime trasmissioni di Mike Bongiorno e spesso chiamava quel ragazzino per ripassarla e ripeterla a qualcuno. E il piccolo Luca partecipava interessato, in quanto gli piacevano tutte quelle notizie geografiche, per cui si era fatta una cultura sulle capitali di tutte le nazioni o sui fiumi più lunghi della terra, ben più vasta di quella che avevano i ragazzini della sua età.
Ma il nostro piccolo giudice era dotato anche di una straordinaria fantasia, che gli permetteva di sfruttare quelle nozioni che aveva imparato ed inventare viaggi immaginari, emozioni fantastiche e divertenti che egli riusciva a trasmettere con facilità ai suoi amichetti, rendendoli impazienti di partecipare ogni giorno ad avventure immaginarie e fantastiche, sempre diverse tra loro.
In quel momento lui diventava il leader di quel gruppo di bambini che, appena entravano, andavano subito a prendere un paio di sedie, le giravano per terra con la spalliera disposta in alto, in modo che diventassero delle piattaforme un po’ allungate, dove loro si sedevano a cavalcioni ed erano pronti a partecipare ogni sera ad un nuovo, fantastico viaggio.
Luca arrivava orgoglioso e pieno di sé, sentendosi grande rispetto a quei suoi coetanei che lo acclamavano. Si appoggiava, facendo finta di sedersi, sulla spalliera della prima sedia, che rappresentava per qui bambini una lunga fila di tappeti volanti ed iniziava il solito gioco: «Se avessi una bacchetta magica, oggi vi porterei a … Parigi. Ecco stiamo sorvolando la Senna, è proprio sotto di noi, attenti alla Torre Eiffel, potremo sbatterci e farci male, se state tutti raccolti vi faccio passare sotto l’Arco di Trionfo e lì in fondo potete vedere l’orologio della stazione dei treni che vengono dall’Italia».
Era un gran vociare fra tutti quei bambini, che si zittivano a vicenda per ascoltare le fantasie che lui raccontava di getto, attirando sempre il loro interesse ed anche l’attenzione dei vecchi, che facevano solo finta di essere infastiditi dall’inevitabile baccano che ne scaturiva, ma in fondo ascoltavano anche loro, con interesse, quelle improvvisate fantasie di un bambino che, dicevano con un pizzico di ammirazione, diventerà sicuramente qualcuno.

mercoledì 13 novembre 2013

Intervista di Salvatore Merra ad Alfio Giuffrida su “Quella notte al Giglio”

sito web Intervista di Salvatore Merra, Direttore Editoriale della “Sovera Edizioni”, ad Alfio Giuffrida, in occasione dell’undicesima fiera nazionale della piccola e media editoria “Più libri più liberi” (Roma, Palazzo dei Congressi, 6-9 dicembre 2012).
 

Merra: Dopo “Chicco e il Cane”, che ha commosso tutti i nostri lettori per il toccante destino di Molly e ci ha fatto riflettere sulla piccolezza degli uomini e la potenza del Creatore, ecco un altro romanzo: “Quella notte al Giglio”. Cosa hanno in comune?

Giuffrida: Con “Chicco e il Cane” ho voluto aprire un nuovo filone letterario, che il direttore del giornale on line “Meteoweb” ha chiamato “Verismo interattivo”, perché tratta di fatti assolutamente veri e perché da al lettore la possibilità di diventare egli stesso protagonista, partecipando alle discussioni che si aprono dalle sue pagine! A parte la storia di Chicco e Molly che costituisce la trama del romanzo, il libro ha posto in discussione un problema annoso: le interferenze mediatiche possono influenzare la Giustizia? Se subito dopo il sequestro di Emanuela Orlandi non fossero state rese pubbliche alcune notizie che dovevano essere riservate, forse oggi il caso poteva essere risolto? E la parabola della penna, carta e calamaio: chi è il vero Autore delle nostre azioni? Chi ci ha creato con un corpo e un’anima. Entrambi gli argomenti sono stati già oggetto di discussione su molti siti internet. E “Quella notte al Giglio” vuole continuare ad accendere i riflettori su nuovi argomenti, da discutere assieme ai lettori.

Merra: La tragedia della Costa Concordia fa da cornice all’amore di due coppie, quella italiana di Alex e Silvia e quella coreana di Park e Bae, questi ultimi in viaggio di nozze sulla nave. Le vicissitudini di Bae spingono Silvia prima e sentirsi in colpa verso di lei, poi addirittura ad innamorarsene. Ci si chiede fino a che punto possa o debba spingersi un’amicizia.

Giuffrida: Le due coppie vengono coinvolte in una intricatissima storia, imperniata sulla spettacolarità dell’inchino all’isola del Giglio e sulle conseguenze che quel gesto, pur se entusiasmante verso la clientela delle navi da crociera, può causare se effettuato senza la dovuta professionalità. Chiaramente questa riflessione è lo scopo principale per cui è stato scritto il libro. A questo ho voluto aggiungere qualche riflessione: il senso di dovere nell’aiutare un’amica in un suo momento di sconforto, può spingersi fino a mettere a repentaglio la propria armonia familiare? Una donna può innamorarsi di un’altra donna? E in tale caso, per un marito, il tradimento è più doloroso quando la moglie lo lascia per un altro uomo o quando lo lascia per un’altra donna?

Merra: Anche in questo romanzo, come nel precedente, il vero protagonista è un piccolo cane. In Chicco e il cane, uscito di recente, è la cagnetta Molly che fa emergere Chicco dall’autismo. Qui è Kim, il cagnolino della giovane sposina Bae, il quale muore tra atroci sofferenze nell’affondamento della Costa  Concordia.

Giuffrida: Il piccolo Kim rappresenta tutti i 4200 ospiti della nave. La sua dignità nel morire mi è servita per dare l’idea di come, in quei momenti, si possa soffrire in silenzio, senza pensare ad altro se non alla propria vita ed a quella delle persone a noi più care. Ed in questa dimostrazione di altruismo gli animali sono insuperabili. Se avessi descritto il caso di questa o di quell’altra persona, avrei peccato di parzialità, trascurando il fatto che il dolore, in una tragedia come quella della Costa Concordia, è generalizzato. Anzi direi che è esteso anche ai parenti delle vittime che, da casa, vivono ore di angoscia, non meno terribili di quelle vissute dai naufraghi in prima persona. Le figure della mamma e della sorella di Park, penso descrivano bene questa sofferenza. Inoltre ho voluto sollevare un altro problema: mi sono chiesto più volte perché gli animali da compagnia non sono ammessi sulle navi da crociera. Così, continuando nella mia ottica del “Verismo interattivo”, ho voluto innescare una discussione su questo argomento e sono in attesa di qualche risposta sul mio blog, che mi spieghi perché i cani diano fastidio sulle navi da crociera.

Merra: Nel romanzo vengono evidenziati vizi e virtù tipiche dell’uomo, egoismo, presunzione, viltà; all’opposto senso del dovere, altruismo e solidarietà.
Mi pare che sia soprattutto un inno alla solidarietà: tra partner, tra familiari, tra conoscenti e in particolare verso estranei bisognosi.

Giuffrida: Da soli non valiamo nulla, saremmo come degli esseri inanimati buttati per caso su questa Terra. La nostra vita dobbiamo viverla nella società con tutti i pregi ed i difetti che essa presenta. Ma è proprio nei momenti di bisogno che vengono fuori i nostri caratteri: si scopre chi è codardo e chi è eroe. Chi pensa solo a salvare la propria vita e chi è disposto a rischiarla per salvare il prossimo. Chi è in grado di affrontare le proprie responsabilità e chi fugge lasciando al loro destino le persone che si erano affidate a lui.

Merra: Alex è il nome di uno dei protagonisti maschili sia in Chicco e il cane che in Quella notte al Giglio. In più è un esperto meteorologo. Non può essere un puro caso.

Giuffrida: Molti dei miei lettori avranno pensato che nei miei racconti ci sia qualcosa di autobiografico. In effetti c’è solo il racconto di tutti quegli eventi, di cui sono stato spettatore nella  mia vita, nel mio lavoro o nella mia lunga esperienza di conferenziere in Italia e all’estero, che meritano di essere narrati. In Chicco e il cane è assolutamente vera la storia della cagnetta che tronava ad Ostia percorrendo la via del Mare. È vera la conferenza organizzata da Federasma e tanti altri particolari come il fatto di Tino sull’aereo o di Rita e la sua organizzazione che lotta per salvare gli animali abbandonati. In Quella notte al Giglio sono veri pressappoco tutti i fatti raccontati, compresa la descrizione della forgiatura del pugnale, dell’inchino all’isola di Procida e, purtroppo e soprattutto, anche di quello all’isola del Giglio!

Merra: C’è un senso ineluttabile del fato nel romanzo, coniugato alle virtù tipiche del cristiano che sono, a parte l’amore, la fede e la speranza. Si dà molto risalto a quest’ultima.

Giuffrida: Al liceo sono rimasto affascinato dalla lettura dei “Promessi Sposi”, dal suo modo realistico di raccontare gli eventi, che ho cercato di imitare nei mei romanzi. In esso c’è anche una sottile morale che il Manzoni vuole infondere nei propri lettori: la Provvidenza che guida sorregge le nostre azioni. Io ho voluto introdurre la Speranza in cui dobbiamo credere finché c’è vita nei nostri cuori o, in altri termini, la Fede nel sapere che le nostre azioni sono tutte effimere e c’è sempre Qualcuno sopra di noi che, se vuole, può sempre capovolgere, in meglio o in peggio, la nostra vita.

Merra: Aleggia l’ombra della malattia mentale sia in Chicco e il cane, dove è il protagonista eponimo Chicco, affetto da autismo infantile, sia in Quella notte al Giglio, dove la giovane coreana Shim, sorella di Park, mostra i sintomi di ritiro dovuti a una psicosi esordita in età giovanile. L’Autore mostra grande competenza e sensibilità.

Giuffrida: E’ il ringraziamento che ognuno di noi dovrebbe fare quando si guarda allo specchio e vede che sta bene. Di fronte alla salute tutto il resto è nulla, ricchezze, agi, problemi di lavoro e quant’altro ci sembra irrinunciabile, sono solo dei futili particolari. Le malattie che ho citato nei mei romanzi sono i soli e veri problemi della vita, le prove a cui il Signore ha voluto sottoporci per vedere e giudicare le nostre reazioni.

Merra: Il romanzo è anche una rivendicazione orgogliosa delle virtù del popolo italico, contro l’accusa infamante di codardia, mossa da un giornalista straniero.

Giuffrida: Quella frase: “Salga a bordo cazzo”, era diventata il triste ritornello in quei giorni incredibili, in cui tutti eravamo sempre più esterrefatti dal motivo che ha causato la tragedia. In quel periodo non passavano più di cinque minuti che quella frase non venisse riproposta, in Italia e all’estero, con qualsiasi mezzo: televisione, internet, giornali ed altro. Ma quel che è peggio, con sottile ironia, sembrava essere riferita non solo al Comandante Schettino, ma a tutti gli italiani. Questo è stato il motivo per cui DOVEVO scrivere questo libro! Non sta certo a me giudicare Schettino né come persona né come Comandante, c’è un procedimento penale in corso e, chi ha sbagliato, si spera pagherà con una pena commisurata ai suoi errori. Ma in quei giorni, soprattutto all’estero, erano tutti gli italiani ad essere sotto processo, tacciati da una infamia che sicuramente non meritiamo. Ma non è affatto così! Ecco perché in me è scattata “La rabbia e l'orgoglio”, come il titolo del famoso articolo, poi diventato un libro, di Oriana Fallaci, che mi ha imposto di mettermi a scrivere. Ad essere determinante è stata proprio una frase di quel libro: "Vi sono dei momenti, nella Vita, in cui tacere diventa una colpa e parlare diventa un obbligo. Un dovere civile, una sfida morale, un imperativo categorico al quale non ci si può sottrarre".