CARI AMICI QUALCHE BRANO DAL MIO NUOVO LIBRO
ODORE DI SUJO
Capitolo I
I ricordi del ’68
Erano
le 2:00 di notte, e io mi trovavo ancora in ufficio impegnato nel mio turno di
lavoro a studiare le carte isobariche in vista delle previsioni meteorologiche
che avrei annunciato l’indomani.
Il
mio era un lavoro che non conosceva limiti di tempo, doveva essere attivo 24
ore su 24, per 365 giorni l’anno. “Il Servizio Meteorologico dell’Aeronautica
non dorme mai”, aveva detto qualcuno in vena di slogan.
A
un tratto il mio cellulare si mise a trillare.
Il display s’illuminò e apparve un nome che non vedevo da mesi, ma che
conoscevo molto bene. Una scarica di
adrenalina percorse il mio corpo, il braccio, intorpidito dall’emozione, si
mosse meccanicamente e la mano tremante afferrò l’apparecchio e lo portò
all’orecchio.
Era
ormai da molto tempo che pregavo per sentire quella voce, mentre una volta le
sue telefonate erano continue, assillanti e quasi opprimenti. Aspettavo con ansia un qualsiasi cenno da
parte sua, uno squillo o una chiamata proveniente da quel numero e adesso, che
il suo nome appariva di nuovo, nel momento più inaspettato, ero quasi in preda
a un attacco di panico. Che cosa poteva essere successo? Perché mi chiamava a
quell’ora?
«Pronto
,» balbettai con voce esitante, trepidante di sapere cosa ne fosse stato di
lui. Ma il piccolo altoparlante rimase muto, come se fosse anch’esso rimasto
privo di parole.
«Pronto,
Giorgio, sono Alex ,» ripetei con voce più forte, mentre i nervi del volto si
contraevano in una smorfia di dolore.
«Sto sotto al pontile», disse una voce cavernosa e sofferente all’altro
capo del telefono. E non aggiunse altro.
La
comunicazione s’interruppe, nonostante mi ostinassi a ripetere «Pronto», a
chiamarlo per nome, con maggiore veemenza, con affanno. Provai più volte a richiamare quel numero,
ma risultava irraggiungibile, come se il cellulare fosse stato spento. I miei
colleghi, che quella notte mi affiancavano nel turno di lavoro, si erano
riuniti tutti in semicerchio attorno a me e mi guardavano in silenzio. Le loro
braccia, come tutto il mio corpo, si ricoprirono di un leggero strato di sudore
freddo.
Mi
conoscevano bene, ero metodico, professionale, dedito al mio lavoro, corretto
nei confronti della società. Eppure nella mia famiglia c’era una macchia nera,
un qualcosa che evitavo di approfondire, perché era un argomento di cui non
potevo essere orgoglioso. Tutti sapevano
di quel mio problema e si compenetravano nella mia preoccupazione. Non era solo
curiosità, il loro affetto era sincero. Loro aspettavano da me una spiegazione,
eppure io non riuscivo a dire nulla, in quel momento ero rimasto impietrito. Il mio sguardo era assente, impegnato a
scrutare momenti lontani, sempre vivi nel grande cassetto dei ricordi.
Affioravano
nella memoria quei volti tesi di noi giovani audaci, desiderosi di rinnovare
una società che ormai puzzava di vecchio. Un mondo che fino a pochi anni prima
era giudicato immobile, imperturbabile, adesso non era più così: si poteva
cambiare. Allora tutti noi eravamo in preda a una frenesia senza pari, convinti
che tutte le regole che a quel tempo limitavano le nostre azioni, come la
morale o l’ordine pubblico, fossero solo dei vincoli inutili, da bruciare.
Credevamo
che le norme fossero sbagliate e che occorresse cancellarle tutte per rifarle
daccapo, basandoci su quelle che noi chiamavamo ‘idee di libertà’. Tutto era da
ricostruire secondo nuove disposizioni e ciascuno improvvisava di essere un
politico in grado di fare nuove leggi più eque e più moderne.
La
politica era la materia più controversa e discutibile nei fatidici anni del
’68, quelli della rivoluzione culturale, quando molti erano convinti di essere
degli ‘intellettuali’. A quel tempo
tutti dibattevano delle correnti filosofiche allora vigenti, di pace, delle
guerre inutili che si combattevano in ogni parte del mondo, per il solo scopo
di vendere armi.
Per
alcuni anni abbiamo sentito sulla pelle l’ansietà di vivere quel periodo
storico di cui eravamo protagonisti, quando l’opinione pubblica era divisa tra
chi sosteneva che si trattasse di uno straordinario momento di crescita civile
e chi, invece, lo interpretava come il trionfo della stupidità generalizzata. I
liceali erano entusiasti di avere conquistato il potere, di dare del ‘tu’ al
professore.
Si
sentivano già colti, in diritto di sostenere e diffondere le proprie idee,
convinti di poter fermare la violenza con un dito, con la sola forza delle loro
teorie. Poveri illusi. Ne parlavano con ingenuità o con convinzione? Alcuni,
sicuramente, erano in buona fede, altri avevano già subìto, a opera di pochi
fanatici, un processo di persuasione che li aveva indotti a pensare non con la
propria testa, bensì con quella altrui.
In
ogni campo c’era un grande fermento: famiglia, istituzioni, società, politica;
tutto veniva messo in discussione, picconato alla base per rifondarlo su nuovi
principii. E adesso? Che cosa avevamo al loro posto? In molti casi qualcosa di
diverso, forse di migliore, sicuramente di più tecnologico. In altri settori,
come ad esempio la scuola, invece, non era ancora iniziato alcun processo di
ricostruzione, era rimasto solo un grande catino pieno di carte stracce.
Eppure
chi, come molti di noi, ha vissuto quel periodo, lo ricorda con nostalgia,
chiude gli occhi e sente ancora l’ardore con cui ha combattuto quella guerra,
il fuoco dei cannoni che divampava dentro i nostri cuori. Il mestiere del politico,
in quegli anni, ha subìto una trasformazione storica: non più programmi
elettorali improntati al bene comune, presentati nelle varie, e noiose,
trasmissioni, ma soldi e libertà divennero gli argomenti di tendenza, che
coinvolsero da quel momento in poi il pubblico, che iniziò così a mostrare
maggiore interesse.
Si
assisteva sempre più frequentemente ai patti scellerati tra governanti e
impresari, apparentemente finalizzati a realizzare strutture pubbliche che
avrebbero dato lavoro a molti e benefici a tutti, quando in realtà avevano solo
il recondito interesse a spartirsi fra loro la torta del denaro pubblico. Intrighi malcelati fra amministratori di beni
pubblici e individui di dubbia rettitudine, che tuttavia facevano presa su
giovani e adulti.
Molti
politici si erano messi a spulciare i vari contratti di lavoro e, in ogni
comizio che tenevano, evidenziavano ai giovani quali erano i loro diritti.
Costoro li hanno ascoltati fiduciosi, senza curarsi del fatto che a ogni
beneficio si contrapponevano anche dei doveri che altre persone avrebbero
dovuto assumersi. La parola ‘dovere’ era stata associata, in modo
indissolubile, alla tirannide e cancellata dal loro vocabolario. Dovevi
pretendere di poter fare ciò che volevi, in nome di una libertà senza vincoli
né limiti.
Era
finito il tempo del burocrate severo di mentalità e d’aspetto, dominavano ora
la scena dei giovani rampanti, dalle idee geniali, innovative e, a volte, anche
spregiudicate. E la politica era diventata la meta più ambita dai lestofanti scatenati,
da quella interminabile schiera di arrampicatori sociali che l’avevano
stuprata, violentata, le avevano strappato i vestiti da regina e l’avevano
ridotta a fare la sgualdrina.
Eppure
anche quel periodo è finito. I giovani d’oggi raramente, o mai, parlano del
’68. È un argomento sorpassato. La vita ci ha messo di fronte altre realtà e
quelle ideologie, delle quali ci facevamo portavoce, sono rimaste sotterrate,
chiuse nel cassetto dei ricordi. Ma non per tutti. …
Diritti e doveri, bisogni collettivi e beni pubblici, libertà e schemi sociali vincolanti.
RispondiEliminaAlfio mi permetto di evidenziarle che il suo giudizio lapidario alle prime righe può essere percepito come un punto di criticità. Spero di stuzzicare la sua curiosità con poche righe relative ad un punto di vista diverso dal suo.
Raoul Vaneigem ribalta l'intero modello sociale per restituire ai cittadini il diritto alla libertà creativa e liberare i lavoratori dalla fogna dell'oppressione totalitaria del profitto nel cui nome il regime economico (perfettamente rappresentato da Hartz) reso indipendente dagli uomini esercita il proprio diritto sul territorio come su ogni aspetto della vita sociale. Vaneigem scrive: ''La maggior parte dei nostri desideri sono da reinventare. Tutta l'arte consiste nel riferirli alla vita'' --- ''Abbiamo disimparato a vivere imparando a mercanteggiare''--- ''Ogni desiderio di vita è un desiderio senza limite; Il miglioramento della vita non ammette alcuna economia'' ---- Di più, Vaneigem ci rappresenta identici il sistema economico industriale e le barbarie dittatoriali del passato: ''Allorché la curva variabile dei mercati decide il destino di un metalmeccanico o di uno studente, si stabilisce tra la causa e l’effetto una distanza talmente rilevante che l’alienazione sembra derivare da un azzardo capriccioso o da una necessità imperscrutabile piuttosto che da un caos al servizio d’interessi burocratici.
Come un tempo un despota, con un ukase (russo: editto o decreto) di qualche riga, decideva la deportazione di un popolo intero, un piano di risanamento di bilancio, prospettato “al più alto livello” e solennemente dichiarato di pubblica utilità, getta, soltanto con una cifra, cinquecento, mille, cinquantamila persone in mezzo a una strada e nella miseria''. (Vaneigem: Noi che desideriamo senza fine).