Alfio
Giuffrida
ODORE
DI SUJO
Prefazione
“Un
thriller d’azione e politico con intenti di denunzia sociale”, così è definito
Odore di sujo dal suo autore. Ora Alfio
Giuffrida sembra aver molto riflettuto sulla natura e sulla struttura di ciò
che stava scrivendo, inserendo l’opera in un vero e proprio progetto letterario
all’ombra di quello che lui chiama “Verismo interattivo”, già individuato nei
suoi precedenti romanzi.
Che,
di là dalle brusche semplificazioni che può comportare una simile definizione,
nella sostanza significa fare i conti con la realtà bruta dell’attualità
cercando nello stesso tempo quanti più agganci e condivisioni per far sì che
ciò che si narra possa essere in sintonia con le attese del lettore e con il
suo sistema valoriale rispetto al continuo assillo di problemi aperti,
situazioni emergenti, conflitti che si trascinano negli anni.
Ad
esempio, proprio partendo dall’evento alla base dell’intero racconto (la scomparsa
di Giorgio, extraparlamentare all’origine, cognato di chi riferisce la storia,
che sarà poi ritrovato ferito in modo misterioso), scaturisce tutta la
riflessione sul Sessantotto.
Con
la sua sofferta eredità, le sue controversie denunziate fin dal primo capitolo
e poi disseminate nel corso della narrazione: “Per alcuni anni abbiamo sentito
sulla pelle l’ansietà di vivere quel periodo storico di cui eravamo
protagonisti, quando l’opinione pubblica era divisa tra chi sosteneva che si
trattasse di uno straordinario momento di crescita civile e chi, invece, lo
interpretava come il trionfo della stupidità generalizzata”.
Così
il “thriller d’azione” di azione ne ha davvero tanta, e non fa davvero difetto
di materia per una detection incalzante che cambia continuamente scenari e
irrompe con effetti sempre inattesi e spiazzanti. Il lettore può davvero
inseguire i suoi protagonisti e le comparse del gran gioco narrativo, con le
sorprese, le agnizioni, i colpi di scena, i ribaltamenti di prospettiva, gli inserimenti
più o meno allusivi di fatti clamorosi di cronaca politica e giudiziaria.
E
in tutte le loro trasformazioni, anche di genere come si potrà a un certo punto
costatare. E su una ribalta che continuamente muta, dalla Cuba
controrivoluzionaria alla Roma dell’intrigo politico alla Valencia dello
spaccio mondiale della droga e così via.
Come
un caleidoscopio nell’occhio: tanto è forte la regola che dovrebbe regolare la
struttura di ogni suo disegno, tanto variano le forme e i colori appena li
agiti un po’.
Ma
una cosa caratterizza la storia così vertiginosa e così incalzante (con fughe
su motoscafi notturni e voli disperati destinati a schiantarsi) che talora
sembra avere il ritmo cinematografico di un racconto di Fleming, in una delle
sue tante versioni che hanno vampirizzato lo scrittore inglese.
E
che impegna tutti gli attori della vicenda in un incastro sempre più fitto di
eventi in cui, al limite della verisimiglianza che accende il romanzesco con i
suoi elementi più forti (come la ricerca di un figlio perduto), i destini
sembrano alla fine a sorpresa soprapporsi l’uno all’altro, e l’uno rimandare
all’altro grazie alle continue rivelazioni.
Il
fatto è che l’azione in più occasioni è detta, narrata, attraverso il filtro
dell’affabulazione spesso con più persone coinvolte.
Racconta
le sue rocambolesche avventure, le fughe, i pedinamenti, gli agguati da Cuba
alla Giamaica, dal Brasile alla Spagna all’Olanda, Jennifer, intorno a cui come
in un puzzle si compongono quasi tutte le altre esistenze.
Racconta
il giudice che si è reso protagonista di una clamorosa effrazione, narrando il
suo vissuto adolescenziale, il tormentato rapporto con il padre, il trauma, la
sofferta scelta sessuale.
E,
allora, dove lo svolgimento è rapido, secco, davvero imprevedibile, e capita
davvero di tutto e i destini si aggrovigliano e si sgrovigliano in sorprese
continue (familiari, sociali, investigative), la narrazione che ne consegue per
forza di cose rallenta, raffredda, commenta, indirizza, sottolinea,
puntualizza. Il racconto dentro un altro racconto.
Così
il romanzo assume questa sua particolare forma che è anche la scommessa
narrativa di Giuffrida: quella di scivolare dentro la rete labirintica di un
thriller d’azione in cui possono accadere anche le situazioni più incredibili,
come che un episodio madre di riconoscimento delle identità sia ambientato in
una piazza San Marco deserta e sconvolta dal nubifragio.
E
che nello stesso tempo, come dinnanzi a un crocevia in cui miracolosamente si
trova di volta in volta la strada giusta, affiora la tessitura per così dire di
riflessione, l’intento che puntella, comprende, devia l’azione.
Come
nel penultimo capitolo, costruito come il piccolo teatro di una conversazione
con sulla scena una collettiva discussione a più voci in cui ognuno esprime il
proprio punto di vista sul decadimento dei costumi, il lascito degli ideali e
il confronto/scontro con la rugosa realtà in cui ognuno porta il peso della
propria esperienza: quell’esperienza conosciuta attraverso gli esempi vari
incarnati nei personaggi, il giudice, l’ex sessantottino, l’avventuriero, la
donna misteriosa dall’ambiguo passato politico e sessuale.
Così
alla fine ecco che si delinea meglio la natura di questo giallo che racconta e
insieme ragiona su ciò che va narrando. Ad esempio (ecco un altro tema forte
che affiora) attraverso la corruzione della classe politica che ormai non si
limita a piccoli compromessi con la malavita organizzata, ma ne prende parte
attiva.
“La
politica era diventata la meta più ambita dai lestofanti scatenati, da
quell’interminabile schiera di arrampicatori sociali che l’aveva stuprata,
violentata, le avevano strappato i vestiti da regina e l’avevano ridotta a fare
la sgualdrina”.
Renato
Minore
Il sessantotto, anni belli e complicati
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